“Non compratelo: ve lo dico per il vostro bene”. La rivincita del de-influencing

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“Non compratelo: ve lo dico per il vostro bene”. La rivincita del de-influencing

Nel 2025, tra feed sempre più affollati e contenuti sempre più sofisticati, si sta facendo strada un movimento silenzioso ma potente: il de-influencing. Dopo anni in cui i social media sono stati il regno degli influencer, abili nell’innescare desideri a colpi di codici sconto e haul infiniti, qualcosa è cambiato. Il pubblico è diventato più scettico, più selettivo, forse anche un po’ stanco di essere considerato soltanto un potenziale acquirente. Così è nato il de-influencing, un invito a rallentare, a guardare con occhi diversi quel carosello di prodotti perfetti e vite patinate che per troppo tempo hanno dettato legge.

Non si tratta solo di dire “non comprate questo prodotto”, ma di lanciare una riflessione collettiva su come, quanto e perché consumiamo. Il termine ha cominciato a circolare nel 2023, specialmente su TikTok e Instagram, quando alcuni creator hanno iniziato a pubblicare contenuti in cui sconsigliavano acquisti troppo pubblicizzati o oggetti considerati inutili. Sembrava una moda passeggera, una nuova frontiera del content provocatorio. Invece, si è rivelato l’inizio di qualcosa di più profondo: una critica esplicita alla cultura del consumismo che per anni ha trovato proprio nei social il suo alleato più potente.

L’effetto sul pubblico è stato immediato. Sempre più utenti hanno cominciato a cercare contenuti più autentici, a dubitare delle recensioni troppo entusiaste, a valorizzare chi mostrava anche il lato meno glamour dei prodotti ricevuti in PR package. Secondo un’analisi condotta da DEPT Agency, la crescita del de-influencing riflette il desiderio di esperienze più significative e meno effimere. Il consumatore digitale del 2025 non si accontenta più di seguire tendenze: vuole capire, confrontare, scegliere con consapevolezza.

Questo nuovo atteggiamento ha costretto gli influencer a ripensare il proprio ruolo. Per mantenere la fiducia dei follower, molti hanno iniziato a bilanciare le collaborazioni sponsorizzate con contenuti più critici e trasparenti, in cui raccontano cosa non funziona, cosa non ricomprerebbero, cosa non consiglierebbero agli altri. Non è un’abiura del marketing, ma un modo più adulto di farlo, in sintonia con un pubblico che premia l’onestà e penalizza l’eccessiva costruzione. Il risultato è una comunicazione più sfumata, meno push, in cui il prodotto non è più protagonista assoluto ma parte di un racconto più ampio e sincero.

Naturalmente, il de-influencing non è immune da contraddizioni. Alcuni creator, pur dichiarando di voler combattere il consumismo, finiscono per proporre alternative ai prodotti che criticano, innescando comunque dinamiche di consumo. Il confine tra onestà e strategia è spesso sottile, e non mancano le critiche a chi sfrutta il trend del “non comprare” per vendere in modo più furbo. C’è anche chi teme che il de-influencing possa ridursi a un’altra tendenza destinata a esaurirsi, come tante altre meteore del mondo digitale.

Eppure, nel suo nucleo più autentico, questo movimento rappresenta una presa di coscienza. Un tentativo, forse imperfetto ma necessario, di rimettere al centro la responsabilità, l’autenticità, la qualità della relazione tra creator e pubblico. È un cambio di rotta che sfida il modello dominante e suggerisce che un altro modo di abitare i social media è possibile. Se riuscirà a mantenersi coerente e a non trasformarsi in un’altra formula da replicare, potrebbe davvero segnare una nuova fase nel marketing digitale. Una fase in cui il contenuto non si limita a vendere, ma aiuta a pensare.

Foto di Collabstr su Unsplash

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