La prima volta che ci entri non te ne accorgi. È un dettaglio, un’ombra che passa dietro una tenda rossa, una fetta di torta che sembra troppo perfetta per essere vera, un registratore acceso nel silenzio. Ma poi qualcosa ti trattiene. Ti resta addosso. E all’improvviso ti ritrovi a fissare una foto incorniciata con un sorriso troppo fermo. Quel sorriso.
Laura Palmer è morta. E da quel momento la TV non è stata più la stessa.
Twin Peaks era un luogo mentale. Un’ossessione condivisa. Un mistero avvolto in una melodia ipnotica e in una nebbia così fitta da sembrare seta.
David Lynch e Mark Frost hanno fatto molto più che scrivere un crime soprannaturale. Hanno messo sotto vetro l’inquietudine di un’intera epoca, trasformando un caso di omicidio in una porta dimensionale spalancata sul non detto, sul non visto, sull’inspiegabile.
Laura Palmer, bionda reginetta di provincia, è nata da un progetto mai realizzato su Marilyn Monroe, ritenuto troppo scomodo da Hollywood. Ma non era finita lì: quell’angelo caduto cercava un’altra forma per raccontarsi, e l’ha trovata in un paesino dello stato di Washington dove il male cammina tra i pini e i sogni parlano in codice.
Il pilot venne girato con un budget enorme per l’epoca e pensato anche per essere distribuito come film. In Europa uscì davvero al cinema, con un finale alternativo. Ma l’idea di Lynch era chiara: niente spiegazioni, niente soluzioni. Per lui il mistero era l’unico linguaggio possibile. E quando la rete TV gli impose di rivelare l’assassino a metà della seconda stagione, l’equilibrio si ruppe. Il mistero si afflosciò, gli ascolti crollarono, la serie fu cancellata. Ma ormai Twin Peaks era diventata leggenda.
In quel mondo sospeso tra soap opera e incubo, tutto era doppio: ogni personaggio, ogni luogo, ogni emozione aveva una controparte nascosta. Dale Cooper, agente dell’FBI dall’anima zen e dall’intuito soprannaturale, è il primo a saperlo. Beve caffè come fosse un sacramento, lancia sassi per interrogare l’inconscio, annota sogni su un registratore rivolto a una certa Diane. Il suo personaggio avrebbe dovuto essere interpretato dallo stesso Mark Frost, ma fu Kyle MacLachlan – già diretto da Lynch in Dune – a vestirne il completo nero e a incarnarne la grazia ieratica.
E proprio nei sogni Cooper incontra la Stanza Rossa, con il suo pavimento a zig-zag e le tende cremisi. Lynch l’aveva già usata in Eraserhead, e chiese agli attori di recitare le battute al contrario per poi invertirle in montaggio. Il risultato fu una lingua straniera che sembrava appartenere al nostro inconscio. È lì che Laura sussurra: “Ci vediamo tra 25 anni”. Un gioco. Una minaccia. Una promessa. Mantenuta.
Tra le ossessioni della serie – e di Lynch stesso – c’è la crostata di ciliegie del Double R Diner, dove ogni fetta è un piccolo rituale di dolcezza e inquietudine. E poi le camicie di flanella, i registratori tascabili, i ciambelloni sugli scaffali dello sceriffo Truman. Ma anche spiriti maligni, gufi osservatori e ciocchi di legno che sussurrano verità.
Catherine E. Coulson, la Log Lady, portava il suo tronco ovunque anche fuori dal set. Lo considerava parte del personaggio, della sua verità. Rifiutò di venderlo, anche quando le offrirono cifre altissime.
Sherilyn Fenn – Audrey Horne – doveva avere uno spin-off tutto suo, poi diventato Mulholland Drive. La sua danza ipnotica, il filo di perle, lo sguardo da femme fatale adolescente sono diventati icone. Ma la storia d’amore con Cooper venne ostacolata: Lara Flynn Boyle, allora fidanzata di MacLachlan, si oppose. Il flusso narrativo fu deviato. Le tensioni vere finirono nella sceneggiatura.
Sheryl Lee era stata scelta solo per fare il cadavere di Laura. Ma bastò un flashback, una scena al picnic con Donna, per convincere Lynch a scritturarla anche nel ruolo di Maddie Ferguson. Una cugina, quasi una gemella. Un doppio. Come Judy e Madeleine in Vertigo. Il numero di matricola di Hank in prigione, 24601, era lo stesso di Jean Valjean nei Miserabili. Nulla era casuale.
E nulla era rassicurante. BOB, il volto del male, nacque per errore: l’attrezzista Frank Silva fu ripreso per sbaglio riflesso in uno specchio. Lynch si spaventò. E decise di dargli un nome. Un ruolo. Un potere.
Nel film Fuoco cammina con me, prequel della serie, Lynch racconta gli ultimi giorni di Laura Palmer. Crudo, disturbante, e all’epoca malcompreso, oggi è considerato uno dei suoi capolavori. Doveva essere il primo di sette film. Il progetto si fermò. Ma lasciò un’eredità impossibile da cancellare.
David Bowie compare in quel film nei panni dell’agente Phillip Jeffries. Apparizione fugace, voce spezzata, presenza eterea. Avrebbe dovuto tornare nel revival del 2017, ma morì nel 2016. Lynch decise di non sostituirlo. Solo evocarlo. Come si fa con i fantasmi.
Nel 2017, Twin Peaks: The Return non fu una terza stagione, ma un’opera d’arte. Visionaria, lenta, disturbante, irripetibile. Cooper si frammenta, la realtà si dissolve. Tutto è tempo liquido, tutto è perdita. Lynch stavolta ha fatto davvero quello che voleva. Fino in fondo.
Il diario segreto di Laura Palmer – scritto da Jennifer Lynch – è una lettura necessaria. Per chi vuole comprendere le crepe nella maschera. Per chi vuole sapere cosa nascondeva davvero quel sorriso. Un romanzo-confessione che completa la serie come un sussurro notturno.
Oggi Twin Peaks è ovunque. Nella musica, nella moda, nel cinema, nei meme. Amata da Tarantino, da J.J. Abrams, da Paul McCartney. Si racconta che perfino Gorbaciov abbia chiesto a Bush di scoprire chi avesse ucciso Laura Palmer.
E quando nel 2025 David Lynch ci ha lasciati, lo ha fatto lasciando dietro di sé una mappa impossibile. Un labirinto di simboli, suoni e visioni che ancora oggi ci inseguono nei sogni.
Perché Twin Peaks non finisce. Si risveglia. Si trasforma. Continua a parlare. E ogni volta che lo fa, ci ricorda una cosa sola.
Che i gufi non sono quello che sembrano.
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