Giorgio Moroder e il suono che accese gli anni ’80

Giorgio Moroder e il suono che accese gli anni ’80

C’era una volta un decennio in cui bastava premere play su una cassetta per sentirsi in un videoclip. Gli anni ’80 non erano solo un periodo storico, erano un’onda fluorescente che travolgeva ogni cosa: dal ciuffo laccato alle spalline a dir poco strutturali, dal neon sparato sulle vetrine fino alle scarpe da ginnastica che ormai marciavano anche in discoteca. Ma se c’era una cosa capace di riassumere tutto questo e farlo vibrare al ritmo dei battiti per minuto, quella cosa era la musica. E se la musica degli anni ’80 fosse un tempio, allora Giorgio Moroder sarebbe inciso nel frontone come divinità del sintetizzatore e profeta del BPM.

Moroder, nato in un angolo di Dolomiti più vicino alle slitte che ai club, si è trasformato in una leggenda planetaria armato di Moog, baffi e occhiali specchiati. Ha preso il suono analogico, lo ha impacchettato in sequenze robotiche e lo ha mandato a conquistare le piste di tutto il mondo. Quando ha prodotto “I Feel Love” per Donna Summer nel 1977, ha letteralmente anticipato di un decennio quello che sarebbe diventato il suono cardine degli anni ’80. Ma è proprio in quel decennio, nel pieno dell’eccesso, che Moroder diventa onnipresente: nelle radio, nei film, nelle nostre fantasie notturne da pista e da salotto.

Ha scritto colonne sonore che ancora oggi fanno tremare il cuore e muovere le ginocchia. “Flashdance… What a Feeling”, “Take My Breath Away” da Top Gun, “Call Me” dei Blondie e quel gioiello pop-tropicale che è la colonna sonora di Scarface. Ma Giorgio non faceva solo musica da film: faceva film con la musica. Le sue tracce erano personaggi, cambiavano la scena, alzavano la posta. Non era più sottofondo: era racconto, corpo, motore narrativo.

Intanto, mentre Giorgio costruiva sinfonie elettroniche capaci di farti innamorare in ascensore e ballare in ascensore (e anche fare cose in ascensore), intorno a lui esplodeva una giungla musicale. Gli anni ’80 pullulavano di meteore pop, artisti che arrivavano come fulmini, lasciando una hit che ancora oggi fa capolino nelle nostre playlist nostalgiche. Gente come Baltimora, con quel “Tarzan Boy” urlato in falsetto tra echi jungle e synth plastificati, oppure Ryan Paris con “La dolce vita” che ci faceva sognare Roma come se fosse Beverly Hills. Canzoni che sembravano estive ma che si sono scolpite nell’inverno della memoria collettiva, a dimostrazione che una sola hit può bastare per entrare nel mito, almeno per un’epoca.

Ma se le meteore brillavano e si spegnevano, Giorgio no. Giorgio brillava e basta. Ha attraversato generazioni, collaborato con Daft Punk, Sia, Britney Spears. È salito sul palco con la stessa naturalezza con cui accendeva un sintetizzatore. E mentre alcuni suoni diventavano obsoleti, i suoi no: venivano campionati, riscoperti, venerati. Un po’ come quei vinili vintage che suonano meglio del digitale anche solo per nostalgia.

E a proposito di nostalgia: la moda degli anni ’80 camminava a braccetto con la musica. Non era solo influenzata: era parte integrante del suono. Un outfit poteva essere funky, new wave, post-punk. Madonna dettava legge con bustini e crocifissi, Prince mischiava pizzo e testosterone, i Duran Duran sembravano usciti da un editoriale di Vogue. Le spalline erano un inno al potere, i colori fluo dichiarazioni d’intenti. Le tute in acetato rimbalzavano tra palestre e concerti, le cinture alte segnavano più gli anni che il punto vita. E intanto si ballava. Ovunque, sempre.

La radio passava synthpop, il walkman sparava new romantic, le discoteche suonavano eurodisco e funk elettronico. La musica si indossava, la moda si ascoltava. E il tutto era un gigantesco videoclip in slow motion con la nebbia del dry ice e le luci strobo.

Oggi, guardandoci indietro, ci rendiamo conto che quella fusione tra musica e moda era più di un trend: era una rivoluzione culturale. E Moroder ne è stato l’architetto segreto. Ha costruito un ponte tra la sperimentazione tedesca e il pop americano, ha reso le macchine capaci di emozionare, ha dimostrato che l’elettronica non era solo fredda precisione, ma calore, energia e desiderio. Se gli anni ’80 sono stati un ballo collettivo, Moroder ha composto la colonna sonora. E se oggi continuiamo a ballare, forse è solo perché lui non ha mai smesso di suonare.

Foto di S. Bollmann, via Wikimedia Commons, licenza CC BY-SA 4.0. L’immagine è stata ridimensionata per esigenze di layout.

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