Estate 1984. Il sole picchia sulla spiaggia, il ghiacciolo cola sul polso e il Walkman diffonde nell’aria le note di Prince o dei Duran Duran. Intanto, in un salotto qualunque di Brooklyn, un ginecologo con la battuta pronta e un guardaroba da antologia si appresta a cambiare per sempre il modo in cui la televisione racconta le famiglie. Il suo nome? Heathcliff Huxtable, ma per noi italiani, semplicemente Cliff Robinson.
Il 20 settembre 1984, sulla NBC, debutta “The Cosby Show”. In Italia arriverà con il nome de “I Robinson” e con quella leggerezza tutta anni ’80, si infila nel nostro immaginario diventando subito più di una sitcom.
Fino a quel momento, la rappresentazione delle famiglie afroamericane sul piccolo schermo aveva seguito strade spesso stereotipate o improntate al disagio sociale. I Robinson, invece, entrano in scena con un ginecologo e un’avvocatessa in carriera, cinque figli svegli e una casa piena di colori, libri, musica e maglioni inconfondibili. Sono colti, ironici, affiatati. Sono la nuova America, quella che ride e riflette senza prediche.
Bill Cosby, che nella serie interpreta Cliff e ne è anche il creatore, ha una missione: raccontare l’identità afroamericana senza gridare, con naturalezza, mostrando la quotidianità di una famiglia che potrebbe vivere nell’appartamento accanto al tuo. Con lui, Phylicia Rashad nei panni di Claire, madre autorevole e ironica, femminista ante litteram, scelta non a caso anche per il suo spagnolo fluente: all’inizio il personaggio era stato immaginato come dominicano.
Sul divano di casa Huxtable si sono seduti i figli Sandra, Denise, Theo, Vanessa e la piccola Rudy. Una piccola nota nerd: nel pilot, Sandra non esisteva. Venne aggiunta dopo, perché Cosby voleva mostrare anche una figlia universitaria di successo.
Tutti i personaggi sono scolpiti nella memoria collettiva. Theo, interpretato da Malcolm-Jamal Warner, è ispirato al figlio reale di Cosby e affronta con delicatezza il tema della dislessia. Denise, la ribelle Lisa Bonet, fu allontanata dallo show per aver posato senza veli, ma il suo personaggio resta uno dei più amati. Rudy, pensata inizialmente come un maschietto, divenne l’adorabile bambina interpretata da Keshia Knight Pulliam. E poi Olivia, la piccola Raven Symoné, che avrebbe conquistato da grande l’universo Disney.
I maglioni di Cliff? Iconici. Erano vere opere d’arte realizzate dallo stilista Koos Van Den Akker. Ogni episodio diventava un piccolo saggio di costume: le lezioni di vita si mescolavano alla comicità con una naturalezza disarmante. Si parlava di educazione, sessualità, razzismo, salute mentale, disabilità, diritti civili. Sempre con il sorriso, ma mai con superficialità.
Dal 1985 al 1989, I Robinson furono il programma più seguito d’America. Il finale, andato in onda nel 1992, fu visto da oltre 44 milioni di spettatori. Non solo un trionfo di ascolti, ma un cambio di paradigma. Per la prima volta, una famiglia afroamericana della media-alta borghesia veniva rappresentata non come eccezione, ma come normalità.
E se “Willy, il principe di Bel-Air” poté esistere, fu grazie a Cliff e Claire. Se si è potuto iniziare a parlare di inclusione nelle serie mainstream, è perché i Robinson ci hanno insegnato che ridere è una forma potentissima di consapevolezza.
Certo, il nome di Cosby negli ultimi anni è stato riscritto dalle ombre e dai processi che hanno coinvolto la sua figura. Ma l’impatto culturale della serie resta intatto, così come il valore che ha avuto per intere generazioni.
Rivedere oggi una puntata dei Robinson è come entrare in una casa che conosci già, dove il divano ha ancora l’impronta delle tue risate e il frigorifero conserva gli stessi panini al burro d’arachidi. Perché quella non era solo la loro famiglia. Era un po’ anche la nostra.
E allora alziamo il volume della sigla e lasciamoci trasportare di nuovo in quella Brooklyn colorata, fatta di abbracci, battute brillanti e lezioni che, a distanza di quarant’anni, hanno ancora molto da insegnarci.
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