Nessun effetto speciale potrà mai replicare la magia di una cantina buia, una mappa spiegazzata, una promessa tra amici fatta con la bocca impastata di caramelle. Quarant’anni dopo la sua uscita, I Goonies resta una delle esperienze cinematografiche più iconiche degli anni ’80. Un film che è diventato rito di passaggio, custode di un’infanzia avventurosa e imperfetta, quella che si sporcava le mani e non aveva bisogno di eroi sovrumani per emozionarsi.
Era il 1985 quando Steven Spielberg, produttore esecutivo con l’intuito di chi sapeva già dove puntare la macchina da presa del cuore, affida la regia a Richard Donner. La penna è di Chris Columbus, lo stesso che anni dopo ci avrebbe regalato Kevin McCallister e la Hogwarts dei primi capitoli. L’idea nasce da una semplice domanda: cosa farebbero dei ragazzini di provincia davanti a un autentico mistero da risolvere? La risposta è una caccia al tesoro che attraversa grotte, passaggi segreti, trabocchetti (o traccobetti) e galeoni, ma soprattutto relazioni vere, senza filtri, fatte di litigi e fedeltà assolute.
Il gruppo di protagonisti oggi sembra un casting irripetibile: Sean Astin nei panni di Mikey, Josh Brolin in versione fratello maggiore, Corey Feldman con la sua parlantina inarrestabile, Ke Huy Quan che da Data passa direttamente al premio Oscar nel 2023. E poi c’è lui, Sloth, il gigante buono dal volto segnato, interpretato da John Matuszak, ex campione NFL con una voce che ancora oggi ci fa tremare quando sussurra “Sloth… ti vuol bene”, e che ogni giorno era costretto a sottoporsi a 5 ore di trucco.
Tutto inizia con una mappa ritrovata in soffitta (macchiata realmente col sangue del designer J. Michael Riva) e finisce con un galeone vero, l’Inferno, costruito interamente a grandezza naturale. Il set era talmente suggestivo che gli attori non lo avevano mai visto fino al primo ciak: le loro facce stupite sono reali, come reali erano il fango, la fatica, il divertimento di un’avventura girata per davvero, senza green screen, con scenografie che si potevano toccare. Dopo le riprese, il galeone venne demolito: nessuno voleva sostenere i costi per conservarlo, ma la sua memoria, quella no, non è mai andata perduta.
Tra le curiosità più notevoli, quella su Cyndi Lauper: scelta da Spielberg per scrivere la canzone ufficiale The Goonies ‘R’ Good Enough, la cantante detestava così tanto il brano da bandirlo dai concerti per oltre 15 anni. Eppure oggi, quel videoclip è una gemma vintage in cui compaiono tutti i protagonisti del film, versione ancora più scatenata e folle.
Il film fu girato in gran parte ad Astoria, Oregon, che da allora è diventata meta di pellegrinaggio per i fan. La casa dei Walsh è ancora lì, anche se l’accesso è stato regolamentato per via dell’afflusso massiccio di turisti. Ogni anno, il 07 giugno, la cittadina celebra il Goonies Day, con tour, eventi e proiezioni speciali: un culto che non si è mai affievolito.
A distanza di quarant’anni, quello che colpisce è quanto I Goonies resti attuale, nonostante tutto sia cambiato. Perché racconta l’amicizia nella sua forma più autentica, il coraggio senza sovrastrutture, il bisogno di credere che anche chi non ha nulla possa trovare qualcosa di prezioso. Non un forziere di dobloni, ma forse un nuovo inizio.
La frase “I Goonies non dicono mai la parola morte” (Goonies never say die!) non è solo un tormentone da cult. È un modo di guardare al mondo con quella testardaggine dolce che solo l’infanzia conosce. Ecco perché ogni volta che sentiamo il nome di Willy l’Orbo, ci viene voglia di infilare le scarpe da ginnastica, prendere una torcia e scappare dalla realtà.
Perché in fondo, quel tesoro esiste. È nascosto in un vecchio VHS, nel rumore di un organo suonato con le ossa, in una pacca sulla spalla tra due amici. E non c’è età che possa cancellarlo.