Sex and the City: un viaggio tra tulle rosa, domande scomode e libertà al femminile

Sex and the City: un viaggio tra tulle rosa, domande scomode e libertà al femminile

Il 1998 è stato l’anno della mia maturità. Quello in cui ho lasciato casa, mi sono caricata addosso una valigia troppo piena e mi sono trasferita a Lecce per cominciare l’università. Tre amiche al mio fianco, il cuore che batteva forte e la sensazione netta di essere sull’orlo di qualcosa: non sapevo ancora cosa, ma lo avrei scoperto presto. Era l’età delle grandi partenze, dei saluti con il nodo in gola e degli inizi pieni di incognite.

Intorno, il mondo sembrava pronto a cambiare pelle. Titanic incassava miliardi al cinema, Céline Dion ci faceva cantare My Heart Will Go On a squarciagola, magari su un traghetto per la Grecia durante l’ultima gita del liceo, con l’adolescenza che già ci scivolava via tra le dita. La maturità, per me, non è stata solo una prova scritta: è stata un salto nel vuoto, con una città nuova da imparare e una vita tutta da costruire.

E proprio mentre io cercavo di orientarmi tra orari delle lezioni, supermercati sconosciuti e cartelle troppo pesanti, da un’altra parte del mondo quattro donne stavano per diventare le nostre complici silenziose. Carrie, Miranda, Charlotte e Samantha. In onda su HBO, ma nei nostri cuori come se fossero amiche di lunga data.

Sex and the City non arrivava come un semplice telefilm. Era un linguaggio nuovo, una voce che parlava direttamente a noi. Non ci offriva risposte semplici, ma ci metteva davanti alle domande che tutte, più o meno consapevolmente, stavamo già facendo. Come si fa a essere sé stesse in un mondo che ti vuole sempre diversa? Si può amare senza perdersi? È davvero necessario avere tutto sotto controllo per sentirsi realizzate?

Carrie scriveva con una vecchia Olivetti e la testa piena di pensieri a metà. Miranda era tagliente, concreta, onesta anche quando faceva male. Charlotte inseguiva l’ideale dell’amore romantico con una determinazione quasi commovente. E Samantha… Samantha era tutto quello che non ci permettevamo ancora di essere, ma che in fondo desideravamo.

Mentre io imparavo a fare il caffè su un fornelletto elettrico e a gestire l’ansia da primo appello, loro si interrogavano sull’amore, l’amicizia, il corpo, il desiderio. E lo facevano con una schiettezza che, per l’epoca, era quasi rivoluzionaria.

Sex and the City ha davvero cambiato le regole del gioco. Ha sdoganato temi che fino a quel momento si affrontavano solo a mezza voce. Ha messo al centro il legame tra donne non come sfondo ma come motore narrativo. Ha mostrato che si può essere brillanti, caotiche, sole o innamorate, ma sempre e comunque piene di valore. E sì, ha trasformato la moda in linguaggio, in scelta identitaria, in dichiarazione quotidiana.

E dietro le quinte, anche lì, c’erano storie che valeva la pena raccontare. Come quella di Sarah Jessica Parker, che accettò il ruolo di Carrie solo a patto di non apparire nuda nella serie: una clausola che HBO rispettò per tutte le sei stagioni. O il fatto che Kristin Davis, inizialmente riluttante a interpretare Charlotte perché troppo pudica per lo stile dello show, finì per essere perfetta nel suo equilibrio tra ingenuità e rigore. Cynthia Nixon, che all’inizio faceva avanti e indietro da New York per girare la serie mentre cresceva suo figlio piccolo, è sempre stata la più simile al suo personaggio: concreta, impegnata, schietta. E poi Kim Cattrall, la più controversa, la più indipendente dentro e fuori dal set. Scelse Samantha solo dopo aver rifiutato più volte il ruolo. Oggi possiamo dire grazie che alla fine abbia ceduto.

La serie è basata sul libro di Candace Bushnell, una raccolta di articoli autobiografici pubblicati sul New York Observer: una Carrie vera, con una Manhattan tutta da decifrare. E quello che pochi ricordano è che, nelle primissime intenzioni, il personaggio di Carrie doveva avere una voce fuori campo più esterna, meno personale. Fu Darren Star, creatore della serie, a volerle dare una dimensione narrativa diretta, trasformandola nella confidente ideale per ogni spettatrice.

Il primo episodio andò in onda il 6 giugno 1998, e da lì nulla fu più come prima. I titoli degli episodi riprendevano il tono delle sue domande interiori, gli outfit diventavano argomenti di discussione tanto quanto le trame, e la sigla – quella pozzanghera, quel tutù rosa – si trasformò in un’icona pop. Persino la voce della metropolitana fu doppiata per la serie da Parker stessa, in uno dei tanti dettagli nascosti che rendevano tutto così dannatamente curato.

Rivedendola oggi, con lo sguardo più allenato e qualche consapevolezza in più, possiamo coglierne i limiti, le ingenuità, le contraddizioni. Ma il cuore di quella serie resta intatto. Quella voglia di raccontare le donne fuori dagli schemi, di metterle al centro senza chiederne scusa, ha lasciato il segno.

E ogni volta che sento quella sigla, ogni volta che rivedo Carrie attraversare la strada e venire investita da una pozzanghera in tulle rosa, mi torna alla mente il mio 1998. Non perché Lecce somigliasse alla Fifth Avenue, ma perché in quel momento, anche senza rendercene conto, tutte noi stavamo cercando la stessa cosa: una direzione. Una voce. Un modo per sentirci meno sole in mezzo al rumore.

Sex and the City ci ha detto che va bene non sapere tutto. Che si può sbagliare con stile. Che a volte, le amiche valgono più di qualsiasi relazione romantica. E che anche quando tutto sembra andare storto, si può sempre ricominciare. Magari con il rossetto sbavato, ma con la testa alta e le scarpe giuste.

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